Il formato ridotto, la posizione poco strategica in calendario stanno a poco poco cancellando il fascino di una competizione popolare ma indigesta ai tennisti

Diciamo la verità: la Coppa Davis è una competizione fossile.
Magnifica, piena di storia e di tradizioni, ma fossile. Figlia di un’altra epoca. Personalmente la amo alla follia, ma devo ammetterlo: il suo fascino ancora resiste, specie nel cuore dei fan più attempati, ma sempre più sottile.
I tempi sono cambiati, lo spirito di squadra che la Coppa incarnava in maniera quasi miracolosa, all’interno di uno sport nevroticamente individuale, è in buona parte evaporato.
Fra i tennisti di vertice c’è chi se ne fa ancora contagiare a prescindere da calendari e montepremi. E chi – la maggior parte – se decide di giocarla lo fa per convenienza, per opportunità, magari per togliersi lo sfizio di vincerla una volta. Non facciamoci illusioni.
Gli sportivi professionisti, come è normale, pensano a guadagnare.
I grandi campioni, in tutti gli sport, sono ormai piccole industrie che hanno logiche diverse da quelle della pura passione. Multinazionali, non cooperative o aziendine famigliari. E che c’entrano poco con il patriottismo, l’attaccamento alla bandiera, l’appartenenza nazionale. Viviamo in un’epoca globalizzata e i giovani figli del Millennio – Sinner, ma anche Rublev, Alcaraz o Rune – si considerano più cittadini del mondo, membri di una élite cosmopolita, che italiani, russi, spagnoli o danesi.
Ci si può indignare, infuriare, dispiacersi – io, personalmente, mi dispiaccio e basta, al massimo un po’ mi intristisco… – ma è così.
Quest’anno Carlos Alcaraz ha vinto gli Us Open, è tornato a casa, non ha giocato l’eliminatoria di Davis – quella che la Spagna ha superato con mille brividi, grazie all’impresa di Pedro Martinez – poi è tornato negli Usa per la Laver Cup.
E’ stato crocefisso? No. Se vincerà la Davis a Bologna, verrà anzi santificato. Amen.
Si può discutere molto sui modi con cui certe decisioni vengono comunicate, condivise – e Sinner anche qui, come nel servizio o nel back di rovescio, ha ampi margini di miglioramento – ma la sostanza non cambia.
Per tentare se non altro di stabilizzare la situazione, qualcosa, certo, ci si potrebbe inventare. Ad esempio aumentare il prize money: oggi la squadra vincente si porta a casa circa 2,7 milioni di dollari, che a confronto dei 6 milioni dell’esibizione di Riad impallidiscono. Oppure farcire l’Insaltiera di punti Atp: ma ci sarebbe il problema di chi non viene convocato e quindi si riterrebbe discriminato. Poi l’Atp ha da tempo puntato sulla Laver Cup, oltre che sulla United Cup, quindi difficilmente tornerà sui propri passi. E l’Itf – pardon, World Tennis – è ormai troppo debole per imporre qualsiasi cosa.
Altro ritocco: il formato. I giocatori hanno per anni accusato la Vecchia Davis di essere troppo invasiva e stancante, ma ora che sono stati in buona parte accontentati, continuano a snobbare la Nuova. Ora, a meno di due singolari e un doppio, al meglio dei tre set, non si può evidentemente scendere. Come sottolinea Filippo Volandri, invece, la collocazione a fine stagione, quando gli atleti sono stanchi e pensano a partire per le vacanze (o per ricche esibizioni), non è ideale. Perché allora non ridurre il tabellone mondiale a due appuntamenti: qualificazioni a febbraio a 14 squadre, Final 8 a settembre aggiungendo il paese ospitante. Oppure anticipare il turno di settembre a luglio, come un tempo, con Final 8 a fine settembre o a ottobre. Certo, la data buona, guarda caso, se l’è accaparrata la Laver Cup – che però a quanto pare non naviga in acque tranquille – e l’allungamento a due settimane dei 1000 estivi nordamericani e di Shanghai rende tutto più complesso. Tutte soluzioni teoriche, me ne rendo conto. E allora, come direbbe Totò, rassegniamoci: la Coppa la giochi chi la ama. E gli altri, pazienza.
L’articolo La Davis non è un obbligo. La giochi chi la ama proviene da Il Tennis Italiano.