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Jannik “normalizzato” a New York. Ma da lì si riparte

Per sua stessa ammissione, nella finale dello Us Open Sinner si è sentito incapace di affrontare adeguatamente il rivale

foto Ray Giubilo

«Se voglio battere Alcaraz la prossima volta devo uscire dalla mia comfort zone. Devo essere capace di accettare di perdere qualche match, per tentare di diventare ancora più forte».
Dopo la sconfitta in finale a New York Jannik Sinner non è sembrato, a chi era con lui in conferenza stampa, troppo deluso. Anzi, l’umore era buono, quasi – quasi… – sollevato. Come se l’essersi tolto dalle spalle il peso del numero 1 in qualche modo non rappresentasse una delusione, ma l’opportunità di ricominciare. Di ripartire ancora.
Ci sono sconfitte che atterrano: dopo quella del Roland Garros Jannik ha pianto a lungo degli spogliatoi. E altre che si trasformano in una opportunità. Come ammonisce San Paolo: «quando sono debole, è allora che sono forte».

Ecco che persino in una vicenda molto glamour ma apparentemente banale come un evento sportivo lampeggia l’attualità dei classici, la loro sempiterna lezione. Jannik, nel gelo da aria condizionata di Flushing Meadows in fondo non ha fatto altro che rivolgere a se stesso, alla comunità delle sue anime, l’orazion picciola che Ulisse tiene ai suoi compagni di viaggio nel canto XXVI dell’Inferno Divina Commedia. Rispolverate i ricordi di scuola: «Fatti non foste a viver come bruti…». ‘Virtute e canoscenza’ tennistiche magari sono molto più prosaiche di quelle dell’eroe omerico – un 10 per cento in più di prime di servizio, un drop shot o un serve & volley tentato al momento giusto – ma alla fine il concetto è quello: bisogna osare. Non ci si può accontentare di quello che si ha. Appena approdati ad un traguardo, da lì bisogna ripartire. Anche a costo di perdere qualche certezza nell’immediato.

La comfort zone di Jannik sono i tantissimi successi che ha ottenuto in carriera, specie quest’anno: quattro finali Slam, di cui due vinte, il primo trionfo di un italiano a Wimbledon, il numero uno conservato a lungo. Ma proprio quei successi, ci ha raccontato Jannik, lo hanno come ‘normalizzato’ a New York, dove per battere la concorrenza che non è Alcaraz gli è bastato ‘stare nel suo’. Non rischiare, mettere in campo il potente gioco da fondo che rimane il suo marchio di fabbrica. «Sono uno che colpisce forte – ha detto, facendosi scappare un passaggio di autoironica celebrazione – anzi, sono un ottimo giocatore. Ma quando mi sono trovato davanti alle variazioni di Alcaraz, non ero pronto ad affrontarle». Da qui il bisogno di tornare a sperimentare, di mettersi di nuovo in discussione. «L’ho fatto già in passato», ha ammesso Jannik, e si riferiva al distacco traumatico dallo storico coach Riccardo Piatti, e prima ancora alla non facile decisione di andarsene da casa a tredici anni per tentare di diventare un campione.

Ora per Jannik è tempo di rialzare le vele, ma lui a differenza dell’Ulisse dantesco non rischia di peccare di hybris, non corre il rischio che la sua avventura si trasformi in un folle volo. «Non sarò mai come Carlos», ha ammesso. «Ma posso provare a essere una versione migliore di me stesso». Resistendo all’istinto di proteggersi dalla delusione della sconfitta, e arrendendosi alla necessità di uscire da tutte le comfort zone, da tutte le comode abitudini che ci impediscono di vedere un nuovo orizzonte.

L’articolo Jannik “normalizzato” a New York. Ma da lì si riparte proviene da Il Tennis Italiano.

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